mercoledì 24 giugno 2009

mercoledì 27 maggio 2009

LA MIA CARTA D'IDENTITA' DIGITALE

1990: avevo una repulsione per qualsiasi cosa fosse tecnologicamente avanzato. Avendo frequentato una scuola superiore prettamente tecnica mi ero affezionata alla mia macchina da scrivere e pensavo che potessi risolvere tutto tramite essa.

1991: quando poi mi iscrissi all’università (questa è la mia seconda laurea) incominciai ad utilizzare il computer. Ebbene l’impatto iniziale fu drammatico. Mi avvicinai ad esso con molto sacrificio, pensavo che il suo utilizzo fosse un qualcosa di superfluo. Per fortuna pian pano feci “amicizia” con esso sino a diventarmi indispensabile.

1991/1997: il mio corso di studio universitario non mi imponeva l’obbligo di utilizzare il computer, quindi terminai la mia carriera universitaria senza mai avere bisogno di esso. Eccetto la tesi…

1997: Scissi la mia tesi sul computer e da allora in poi non abbandonai più questo strumento indispensabile, oramai.

Al riguardo del cellulare, ebbe nella mia vita, un corso molto simile al computer. L’impatto iniziale non fu felice, avevo l’idea che fosse uno strumento non indispensabile e mi rifiutai di possederlo. In seguito (1998) mi venne regalato e da allora non me ne liberai più.

1998: trovai lavoro. Ebbene per forza di cose dovetti utilizzare sia il computer che il telefonino ed oggi sono diventati gli strumenti indispensabili della mia attività lavorativa e non solo.

2007: mi riscrissi nuovamente all’università. Questa nuova facoltà di laurea impone l’utilizzo del computer. Sono contenta per questo, avrò modo così di aumentare le conoscenze che mi legano a questo strumento.

2009: concludo dicendo: ben vengano nuovi programmi, nuove invenzioni tecnologiche che permettano ad ognuno di noi di interagire con il mondo tramite nuove strade.
Un pò alla volta sto caricando in questo blog spezzoni di musicals tra i più noti.
Aspetto da voi qualche suggerimento e qualche indicazione per scaovare qualcosa di carino ed interessante!!!

Che storia!!

Un ragazzo di Chicago, Ren McCormack (interpretato da Kevin Bacon), si trasferisce con la madre a Boomont,un piccolo paese di provincia che ha bandito la musica Rock, il ballo e tutto ciò che può corrompere la moralità della cittadina dopo che pochi anni prima quattro ragazzi (tra cui il figlio del reverendo del paese) sono morti mentre tornavano da un concerto fuori città. Da subito Ren si fa dei nemici, a partire dal ragazzo e dal padre di Ariel, per finire con tutto il resto del paese (tranne Willard, Rusty e pochi altri), che lo etichettano come un ragazzo senza morale perché non capisce le regole del paesino e legge romanzi considerati peccaminosi come "Mattatoio n°5" (di Kurt Vonnegut, n.d.a.). Ma proprio per questo suo aspetto "ribelle" Ariel si innamora di lui, anche per contrastare apertamente il padre, il reverendo Shaw, secondo lei colpevole del bigottismo dilagante nella cittadina, che prima aveva disobbedito solo di nascosto, e lo aiuta a ottenere l'autorizzazione per fare il ballo di fine anno nel magazzino fuori città dove Ren lavora anche grazie alla sua conoscenza, piuttosto ovvia, della bibbia e del suo talento di poetessa. Il reverendo comprende in seguito ad uno spiacevole episodio (alcuni cittadini particolarmente ferventi decidono di bruciare alcuni dei libri della bibilioteca scolastica) che negare alcune libertà, come appunto l'ascolto della musica Rock, non è prerogativa di un gruppo di persone segnate da un dolore, e che invece lasciare ai ragazzi la libertà di crescere è senza dubbio la scelta migliore.

I favolosi anni Cinquanta


Quando nel 1943 gli Stati Uniti entrarono in guerra, il musical aveva già espresso tutte le sue intrinseche potenzialità e si trovava in una fase di stallo se non proprio di crisi: molti dei personaggi che erano venuti alla ribalta a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta avevano da anni concluso la loro carriera, altri erano ormai sul viale del tramonto e comunque incapaci di apportare migliorie e venti rivoluzionai ad un genere che appariva ormai svuotato, incapace di esprimere di più di quanto già avesse fatto. Gli anni della guerra si contraddistinsero per il cinema americano come gli anni dell’impegno sociale e politico, ragion per cui, nel panorama delle grosse produzioni, non sembrava più esserci posto per i temi dell’evasione dalla realtà, del sogno a tutti i costi, delle fantasmagorie coreografiche, che avevano segnato i film del decennio precedente. Solo nel dopoguerra e durante gli anni bui, fitti di insicurezze sul futuro, poco rassicuranti per i singoli come per l’intera nazione, dei governi di Eisenhower e MacCarthy, il desiderio di fuggire dalla realtà, cercando nella fantasia, seppur cinematografica, una via di scampo, fecero risorgere, novella araba fenice, il musical dalle sue ceneri. Ma i tempi erano cambiati e l’età dell’oro di Berkeley e delle produzioni della Warner, della leggenda di Ginger Rogers e Fred Astaire, dei vari Al Jolson, Maurice Chevalier, Dick Powell…, gli anni del mito di Hollywood e dei suoi grandi produttori, erano finiti per sempre. Le nuove produzioni, per quanto si richiamassero agli antichi fasti, erano molto più vincolate alla realtà e raccontavano storie non del tutto estranee al contesto sociale ed economico del Paese, alla situazione politica nella quale versava. D’altra parte, dall’Europa, arrivavano le ventate di novità proposte dal cinema neorealista (soprattutto italiano) e Hollywood aveva dovuto fare i conti con il bigottismo moralista del maccartismo che aveva costretto molti autori e produttori ad emigrare altrove, cercando in esilio rifugio per le loro idee (il famoso “processo dei dieci di Hollywood” in seguito al quale, anche ad un personaggio del calibro di Charlie Chaplin, fu vietato di mettere piede negli Stati Uniti). Sulla scena si affacciavano nuovi volti, giovani di belle speranze, la cui esperienza aveva solo sfiorato quella dei grandi del musical classico, e furono proprio costoro a far rivivere, anche se solo per meno di un decennio, il sogno di quell’antico mito. Vincente Minelli, Arthur Freed, Stanley Donen e quello che era destinato a prendere il posto di Fred Astaire nel cuore degli spettatori, Gene Kelly, furono tutti impegnati, fino alla fine degli anni Cinquanta, nella produzione di spettacoli che ottennero spesso un enorme successo, diversi da quelli cui si rifacevano, per lo meno come tradizione, ma proprio per questo più consoni al momento storico e carichi di significazioni che quelli, negli anni, peraltro gloriosi, della loro vecchiaia, avevano perduto.

domenica 24 maggio 2009

NOTREDAME

...

Come stiamo pian piano scoprendo insieme il musical è un prodotto essenzialmente americano... in Italia d'altra parte ha largo successo...
Ma le nostre produzioni?

CHORUS LINE

Davanti ad un teatro di Broadway si fa la coda, ma non per lo spettacolo: c'è un regista che valuta le capacità di centinaia di danzatori aspiranti ad un posto di fila nei balletti del prossimo "musical". Il regista (Zach), seminascosto nel buio della platea, sottopone tutti ad una massacrante selezione, dalla quale alla fine escono fuori sedici ballerini. Ma i prescelti saranno otto soltanto, che dovranno accedere alla finalissima ancora con ansie e fatiche incredibili. Zach esige ora che ciascuno parli di sè, della propria vita ed esperienze, motivando il "perché" di una scelta professionale. Intanto è arrivata in teatro Cassie, una ballerina di qualche anno fa (molto brava e innamorata di Zach), che aveva lasciato lui ed il proprio posto di lavoro per andarsene ad Hollywood. Ora ha bisogno di danzare per sbarcare il lunario: essa deve vincere la indifferenza ed il rancore di Zach, che a lei era intimamente legato, ed implorare di ricomiciare umilmente in gruppo con gli altri. Alla fine Zach sceglierà gli otto fortunati - esausti, ma raggianti - e tra loro sarà anche Cassie, fedele alla sua professionalità ed al suo amore.

Ginger Rogers e Fred Astaire: a passo di danza verso la gloria


Non si può tracciare una storia del musical senza che il pensiero voli diretto a quella che è considerata la coppia più famosa del cinema americano: Ginger Rogers e Fred Astaire, i due ballerini che insieme alimentarono la leggenda del cinema degli anni Trenta dando vita a film di grande successo internazionale, acclamati dal pubblico di tutti i tempi. Provenienti entrambi dal vaudeville, furono ballerini, attori, cantanti e, talvolta, anche coreografi e, insieme, nei dieci film che li videro protagonisti, riuscirono a ridefinire il genere, rinnovandolo. Esecutori di una danza leggera, molto sofisticata, ironica e romantica nello stesso tempo, basata sull’abilità e sulla destrezza personali, ballarono spesso come solisti, facendo a meno del supporto del corpo di danza, cosa che, comunque, per l’epoca risultava abbastanza singolare. Le storie che li vedevano protagonisti insieme, divennero ben presto solo un pretesto per mostrare la loro bravura, sottomettendo la trama, semplice e piuttosto puerile, incentrata su un amore contrastato che alla fine trovava coronamento (torna anche qui il tema dell’happy end tipico di tutta la produzione di genere), al bisogno di mostrare la grazia con la quale riuscivano a riempire il palcoscenico, trasportando lo spettatore in una dimensione di fiaba ottenuta solo attraverso l’esecuzione perfetta del numero rappresentato. Pochi, quindi, gli artifici tecnici, le coreografie fantasmagoriche alla Berkeley, l’apparato scenico: tutto ruotava intorno ai due e alla loro teatralità. Ginger Rogers aveva debuttato nel 1933 in Gold Diggers of 1933, con la regia di Marvin Le Roy e le coreografie di Barkeley entrando, quindi, nella storia del musical dal portone principale; Fred Astaire, invece, dopo una lunga e brillante carriera in teatro insieme alla sorella Adele (I favolosi Astaire), era approdato al cinema in un film di scarso successo, La danza di Venere, e nel ’33 era stato scelto per affiancare la Rogers in un film di ambientazione esotica, Carioca, con la regia di Thornton Freeland.
Fu questo l’inizio, del tutto casuale, della leggenda: i due, infatti, rivestivano entrambi ruoli secondari e lo spettacolo non fu, poi, il successo che la casa di produzione, la RKO (a cui sia la Rogers che Fred Astaire rimasero legati per anni) aveva sperato. Eppure, il mito nacque così, da una sequenza di ballo, eseguita fronte contro fronte, che doveva essere solo una parte di un numero più vasto teso a mostrare la “nuova danza carioca” e in cui era previsto che i due ballassero solo per pochi secondi: il destino passò attraverso quei passi, eseguiti in modo assolutamente naturale e con un affiatamento pressoché inspiegabile tra due che neppure si conoscevano; e il destino volle che insieme, Fred e Ginger, entrassero nella leggenda della storia di Hollywood a passo di danza, con la medesima grazia e leggerezza con la quale erano entrati nella storia del musical.

mercoledì 20 maggio 2009

TRAMA: SUPERFLUA MA PRESENTE!


Mi sembra un pò superfluo mettere la trama di questo successono ma per i "non addetti ai lavori" potrebbe essere utile dare un'occhiata!


Nel corso delle vacanze estive, Danny conosce e passa molto tempo insieme a Sandy, una ragazza che però deve tornare in Australia. Sicuro di averla persa, il ragazzo la ritrova invece all'inizio dell'anno scolastico poiché, trasferitasi da Sidney, si è a sua volta iscritta alla "Rydell". Mentre Sandy cerca di fare amicizia con le Pink Ladies, Marty, Frenchy e Jean, capeggiate da Rizzo; Danny trascorre il suo tempo con gli amici Dooby, Sonny e Putzie. Anzi, non volendo perdere la sua fama di "duro", il ragazzo finge di essere indifferente al fascino della ragazza quando se la ritrova accanto. Sandy, allora, civetta con il culturista Tom; e Danny, ingelosito, tenta di iscriversi nelle squadre sportive della scuola. Alla fine i due fanno coppia fissa ma nel corso della gara di ballo teletrasmessa, Sandy si trova sostituita in finale dall'equivoca Cha-cha che Danny sembra preferire e con la quale vince. Ma la situazione lentamente si sistema. Nel corso di una gara automobilistica, nella quale Danny lotta contro il leader dei rivali "Scorpion", Sandy che lo guarda da lontano capisce di voler cambiare per lui. L'anno volge alla fine e nel corso della festa che festeggia i neo-diplomati, Sandy e Danny ballano perfettamente affiatati.Critica "Dopo 'La febbre del sabato sera', secondo grande successo al botteghino per il neo divo John Travolta. Ma, nella sostanza, il film è un triste manifesto del pericoloso conformismo americano, diretto da un regista distratto e interpretato da divetti finiti nel dimenticatoio. Ben gli sta." (Francesco Mininni, 'Magazine italiano tv') "Spettacolo confezionato su misura per un pubblico di giovani. Vanta la presenza di un Travolta che, con la sua bellezza mediterranea, dilaga dallo schermo in platea. Belle le coreografie e ottimi i ballerini." (Laura e Morando Morandini, 'Telesette')


GREASEEEEEEEEEEE

Barkeley e il Sogno Americano

Il musical che si affermò alla fine degli Anni Venti, aveva già alle spalle la lunga tradizione di Broadway e degli spettacoli di cabaret, quelli che in Europa spopolavano soprattutto nella vitale e trasgressiva Parigi. Molti degli uomini che si apprestarono, quindi, a dedicarsi al nuovo genere cinematografico, venivano proprio da un’esperienza di questo tipo, maturata nelle file dei più importanti corpi di ballo teatrali, come registi o coreografi, se non addirittura come ballerini. Tra questi, Florenz Ziegfeld rivestì sicuramente un ruolo fondamentale per la futura storia del musical, producendo film del calibro di Glorifyng the American Girl del 1929, o Whoopee dell’anno successivo (morto nel 1932, fu omaggiato sia da Leonard che da Vincente Minelli in due film, rispettivamente del 1941 e del 1946: Ziegfeld Girls e Ziegfeld Follies); e più ancora Busby Berkeley, il coreografo che in meno di un decennio, dal 1930 al 1940, firmò, per la Warner Bros, quasi 40 film, inventando apposite tecniche di ripresa mai sperimentate prima e dando vita a spettacoli di una magnificenza grandiosa, in cui tutti gli elementi concorrevano a dare unitarietà e a conferire omogeneità all’insieme. I suoi musical si caratterizzarono sin da subito come i più rivoluzionari nella storia del genere e furono forse i primi ad esprimere quel senso di sogno e di realtà incantata che serpeggiava, come una linea rossa, in tutta la produzione musicale. A Barkeley si deve la liberazione del balletto dalle rigide costrizioni teatrali del palcoscenico, con movimenti di macchina che rendevano pirotecniche e caleidoscopiche le rappresentazioni, create e studiate appositamente per il cinema anche quando si rifacevano a numeri già presentati a Broadway. Nulla era lasciato al caso: le coreografie erano orchestrate sapientemente e permettevano di costruire una realtà altra, fantasmagorica, kitsch si potrebbe definire per certi versi, ma sicuramente perfetta nella sua resa scenica. Barkeley inventò uno stile, lo stile di Hollywood, che nessuno riuscì più ad emulare (e che egli stesso fu costretto ad abbandonare quando dalla Warner Bros passò alla MGM, negli anni in cui il musical esalava, ormai, i suoi ultimi rumorosi respiri). La macchina da presa, che fino alla sua comparsa sulle scene californiane, era stata utilizzata come una banale macchina fotografica che si limitava a riprendere le sequenze di canto e di ballo, si insinuò, con prepotenza sempre maggiore, all’interno della scena descritta, divenendo parte integrante dello spettacolo. Con riprese “a piombo” e overhead shot, cioè sopra le teste, divenne un personaggio fondamentale in tutte le scene musicali, accanto alle coriste e alle ballerine, e anzi, più delle coriste e delle ballerine, in quanto poteva mutare continuamente il punto di vista e la prospettiva delle cose, raccontando molto di più di quello che in realtà stava accadendo, andando oltre la scena, dentro e dietro di essa. Barkeley rappresentò il Sogno Americano, quello degli anni di Roosevelt e del New Deal, mostrando i guai del paese e dei singoli (Quarantaduesima Strada), ma anche il modo per venirne fuori, dando sfogo, così, al bisogno generalizzato di speranza, al desiderio di tutti di trovare una via d’uscita. Non si lasciò mai intimorire dalle storie amare e introdusse nel suo cinema i problemi sociali ed economici (la serie dei Gold Diggers), visti, però, attraverso la luce rosea dell’ottimismo e della gioia di vivere, cercando di combattere in questo modo il clima della grande depressione (celebre la scena, proprio in Gold Diggers of 1933, in cui le ballerine danzano in mezzo ai dollari cantando “We’re the money”). Quello inventato da Barkeley era un universo parallelo, animato da vita propria, con regole precise che, però, sfuggivano allo spettatore medio, intrappolato nel gioco delle evoluzioni e delle coreografie grandiose (sulla scena si muovevano interi “plotoni” di ballerine che, danzando, producevano figure sempre nuove, sempre diverse, inimmaginabile per i mezzi e per i set di allora), trasportandolo in un mondo immaginifico, dove il desiderio di stupire e di sbigottire erano gli ingredienti principali. Non si trattava, ad ogni modo, di uno stupore fine a se stesso, spettacolo per lo spettacolo, ma del bisogno di comunicare una visione ottimistica del suo tempo attraverso un linguaggio esclusivo e raffinato. Questo fece dei sui film, aldilà di tutte le critiche che gli si possono muovere oggi, dei gran film, autentici nel senso più profondo della parola poiché seppero celebrare il cinema e col cinema un paese, un’epoca, una generazione.

ALL THAT JAZZ...anocra un pò di Chicago!

"Chicago": Il Sogno Americano e i Marines ballerini

In Chicago il virtuosismo della struttura e la strabiliante abilità del montaggio riescono a nascondere con stile la crisi inventiva del cinema Hollywoodiano ma soprattutto il bisogno di ridefinire i propri valori da parte della società americana. La storia di Roxie e Velna , le due ballerine assassine che nella Chicago del 1929 si ritrovano in carcere e, rubandosi la scena l’una con l’altra , assistite da un avido avvocato , ottengono le prime pagine dei rotocalchi , era in origine una pièce teatrale datata 1926 ispirata a un fatto di cronaca scoperto dall’autrice la giornalista Maurine Dallas Watkins ; l’opera ispirò due film, uno muto ormai del tutto dimenticato nel ’27 e uno, molto più famoso, nel ’42 , girato da Williams Wellmann, intitolato “Condannatemi se vi riesce”con Ginger Rogers; poi nel’ 75 il geniale regista-coreografo Rob Fosse il musicista John Kander e il librettista Fred Ebb ne fecero un musical di strepitoso successo a Brodway. Da lì proviene anche il regista coreografo di Chicago Rob Marshal , il quale dal celebre musical e più in generale dalla sua profonda conoscenza della storia di questo genere , ha tratto il suo lungometraggio. Tutto questo per dire che una gran parte del cinema statunitense contemporaneo si è trasformato in un esercizio di filologia pura: più che cercare nuove strade o sforzarsi di rappresentare la realtà , come fa persino il cinema italiano, per non parlare di quello europeo, i registi U.S.A. non fanno altro che rielaborare e ricostruire ossessivamente vecchie immagini, generi inattuali, e le loro opere sono rivisitazioni colte e raffinate del passato più o meno prossimo: Haynes in Lontano dal paradiso, torna agli anni ’50, Marshal qui torna agli anni ’30, quelli di Al Capone, del proibizionismo e della grande depressione economica, il grande Brian de Palma in Femme fatale gira una pellicola , limitandosi a citarne altre, o ancora Scorsese racconta in Gang of New York a modo suo il mito della fondazione della grande Mela. Insomma , quando si spengono le luci e inizia la proiezione, si entra nello sciptorium di un convento medievale, dove monaci copisti sono intenti a trascrivere antichi manoscritti di autori classici, mentre intorno a loro il mondo è sconvolto dai cambiamenti. La metafora forse è un po’ azzardata e non del tutto propria, ma serve in qualche modo a dare una spiegazione del solco sempre più profondo creatosi fra il cinema europeo e quello a stelle e strisce. Ancorarsi al passato e studiarlo diventa vitale, quando il presente mette violentemente in crisi i valori fondanti di una civiltà; gli americani hanno vissuto prima la crisi economica conseguente allo scoppio traumatico in borsa della bolla speculativa, l’’11 settembre, scandali finanziare dalle conseguenze devastanti e vivono ora una guerra, dai costi , almeno per ora, non calcolabili. E anche probabile che l’esercito di Bush riesca a vincere, almeno teoricamente, il duello militare con Saddam Hussein , ma la sfida vera è altra: una civiltà è grande, se sa ridefinire se stessa adeguandosi alle metamorfosi continue imposte dalla storia. E di tale urgenza, vitale per la soppravvivenza , il cinema a stelle e strisce almeno in parte sta prendendo coscienza: nei film sopra citati, ci sarà sicuramente il gusto post-moderno per la citazione, l’incapacità inventiva o di analisi , ma si intravede anche la ricerca nel passato del recuperabile in un universo incomprensibile dove nulla più è come era prima e il bisogno di riflessione e di critica nei confronti di una società, delle sue istituzioni, della sua forma mentis e del suo modo di fare arte. Proprio in Chicago , da una lettura meno epidermica e meno attenta ai fattori puramente tecnico- estetici , fuoriesce la presa in giro inclemente dell’orgoglio dell’uomo medio americano per l’appartenenza a un sistema di vita ritenuto fino a qualche tempo fa ineguagliabile e inconfondibile . L’avvocato Billy Flinn (Gere), l’abilissimo principe del Foro difensore delle future celebrità, poco prima del processo spiega a una tutt’altro che ingenua Roxie ( Zellweger) la rudimentale filosofia di vita di una Chicago, nella quale persino Gesù, se avesse avuto i 5000 dollari, sarebbe diventato un caso da prima pagina e sarebbe stato assolto: “E’ un circo ragazzina. Un circo a tre piste.Questi processi. Il mondo intero, sono solo uno spettacolo” e subito dopo, saltellando in un meraviglioso tip-tap ribadirà”Se sei in difficoltà, balla e canta.” Ed eccoci proiettati nel sogno americano: la trovata di Marshal di trasformare le fantasie di gloria dell’ancora sconosciuta Roxie in uno splendente e abbagliante musical , dove lei regna regina incontrastata del palcoscenico, è anche una divertita e colta satira del mito del self-made-man: la statuetta della Rolls color crema è icona del successo , simbolo dell’elegantissimo avvocato arrivato ai vertici della sua carriera , semplicemente manipolando i media e subordinando al suo protagonismo e al suo conto in banca le tragedie altrui, che in realtà raramente sono tali, perché la smania di arrivare non risparmia nessuno e il dolore esiste solo per essere ostentato davanti ai flash dei fotografi. E non c’è salvezza per nessuno: solo il marito di Roxie è diverso, non perché puro, ma perché stupido. Gli altri invece si integrano felicemente: Roxie e Velna,, pur odiandosi nella realtà, finiranno con il diventare alleate e diventeranno le “ballerine assassine” e, essendo due, faranno impazzire il pubblico. Questa è l’America ? Vengono in mente mentre si guardano le ultime impietose sequenze di Chicago i quadri agghiaccianti nei tg da Baghdad……ben presto i marines saliranno sul palcoscenico , con il costume da ballerini, impugneranno un grottesco mitra bianco e faranno la loro danza. O forse Hollywood uscirà dallo scriptorium?


Augusto Leone

CHICAGO

ECCO COME PROCEDERA' IL MIO LAVORO

Cercando di ricostruire la storia del musical vorrei anche vedere insieme a voi qualche pezzo carino di musicals più o meno conosciuti e magari raccontarne un pò la trama.

1929: musica contro la crisi

Gli anni in cui il cinema pronunciò i suoi primi vagiti coincisero con gli anni in cui il mondo assistette al primo grande tracollo finanziario della sua storia, sull’onda lunga della crisi dell’economia statunitense iniziata nel 1929. Erano gli anni dei licenziamenti di massa e degli scioperi nelle fabbriche, e quelli successivi, gli anni della “presidenza Roosevelt”, eletto nel 1932, e della politica del “new deal”. Per quanto riguarda la sfera cinematografica, la nascita del sonoro da un lato, e la grave situazione politica, economica e sociale dall’altro, comportarono, essenzialmente, due ordini di problemi: da una parte, vi era il bisogno di convertire i vecchi apparati secondo le esigenze della nuova tecnologia (e, quindi, rivoluzionando gli antichi principi che avevano sostenuto il cinema fino a quel momento); dall’altra, era necessario trovare un modo per portare il pubblico nelle sale, facendolo appassionare all’uno o all’altro genere, a quello o a questo attore. Erano anni di sperimentazione e dibattiti, di fallimenti e di grandi successi, erano gli anni in cui il muto usciva definitivamente di scena per non rientrarci mai più e portandosi dietro tutti quei divi (il caso di Rodolfo Valentino è il più eclatante) che non erano stati capaci di riciclarsi cercando un loro posto nel sonoro.In America, questa fase, coincise con l’affermarsi delle case di produzione, vere artefici, a dispetto del regista, dello sceneggiatore, degli attori…, della buona o cattiva riuscita di un’opera, dei trionfi o dei flop, e responsabili della rigida codificazione dei generi secondo schemi sempre uguali a se stessi, ripetitivi, rigidamente strutturati. I film venivano prodotti in grandi quantità, secondo meccanismi molto simili a quelli delle produzioni industriali, e ciascuno portava ben impresso il marchio di fabbrica che lo contraddistingueva dagli altri. Mentre la fantasia creatrice cedeva il passo alle ferree regole economiche del mondo dello spettacolo (si puntava più all’affinamento tecnico che sulle ricerche estetiche), si affermarono case di produzioni quali la MGM, la Warner Bros, la RKO, la 20th Century Fox, capaci di sfornare in un anno più film di quanto fosse anche solo possibile immaginare precedentemente. Il sonoro, che negli intellettuali aveva suscitato e continuava a suscitare qualche perplessità in quanto pareva privare il cinema della sua più autentica peculiarità: il silenzio, venne immediatamente adottato e presentato come incredibile prodigio della scienza, nel tentativo di assecondare i desideri del pubblico, ma anche di convertirlo alla nuova tecnica.
In questo contesto così sfaccettato, proiettato su un orizzonte di incertezze e paure, ma anche di nuovi fermenti e scoperte, nacque e si affermò il musical, sulle macerie degli ormai obsoleti spettacoli di varietà, del vaudeville, del burlesque, della farsa, della commedia; e nacque soprattutto come espressione di una poetica di evasione, rappresentazione del sogno americano, dell’entertainment puro. Secondo alcuni trasposizione in chiave bianca della cultura nera, si poneva come obbiettivo quello di trasportare il pubblico in un luogo incantato nel tentativo di dar vita a qualcosa che fosse in grado di suscitare stupore , sia attraverso la magniloquenza scenica (che spesso e volentieri sfociava nel kitsch), sia attraverso la creazione di personaggi connotati realisticamente, ma trasposti su un piano di pura invenzione. Per quanto riguarda le storie raccontate, esse seguivano schemi pressoché identici, ripetendosi con gli stessi meccanismi di trama e di intreccio da film a film, da autore ad autore: semplici e quasi adolescenziali, erano ambientate nello sfavillante mondo dello spettacolo, o meglio, nel “dietro le quinte” del mondo dello spettacolo. Una storia d’amore contrastata o d’impossibile coronamento veniva a interrompere lo scorrere lento delle giornate, accompagnata talvolta dalle difficoltà (economiche, ma non solo) di portare a termine lo spettacolo e metterlo in scena. Le peripezie dei personaggi si snodavano tra una canzone e una coreografia di danza fino all’happy end finale che calava il sipario su tutta la vicenda. Raramente, i registi (e dietro di loro le case di produzione) uscivano da questo tracciato e se lo facevano era, comunque, per ricaderci in qualche punto all’interno della narrazione. Ciò per cui il musical, invece, rivelava una certa forma espressiva e una sua propria peculiarità, erano le sperimentazioni tecniche: innanzitutto, è proprio grazie al musical che si cominciò ad utilizzare la macchina da presa come uno strumento dotato di grande mobilità, capace di cogliere il soggetto da mille punti di vista diversi, creando nuove prospettive e nuovi giochi di profondità. Si perfezionò, poi, la tecnica legata al sonoro la cui sperimentazione era resa ancora più difficile dal fatto che si aveva a che fare non solo con pezzi parlati, ma anche cantati e musicati, e che pertanto andavano riprodotti in modo ineccepibile. Si passò così dalla presa diretta alla registrazione in fase di montaggio, raggiungendo risultati incredibili per il tempo.
Il primo musical di un certo valore di cui si ha notizia fu Il cantante di jazz di Alan Crosland, apparso nel 1927 con il marchio distintivo della Warner Bros. La casa di produzione aveva lanciato, l’anno precedente, un film-opera, il Don Juan sempre con la regia di Alan Crosland, in cui per la prima volta nella storia del cinema veniva sperimentato il sonoro. L’operazione era stata fallimentare, e la famosa major era sull’orlo della bancarotta, quando il successo del Cantante di jazz le permise di risollevarsi una volta per tutte dal fallimento. La storia, in parte un’autobiografia dell’attore Al Jolson, è molto simile a tutte quelle che caratterizzeranno il musical degli anni successivi, con la differenza che in questo caso l’ostacolo verso una carriera di sicuro successo per Jackie, il protagonista, era costituito dal padre, un ebreo russo emigrato negli Stati Uniti e cantore in una sinagoga, che voleva fare del ragazzo il suo successore nei canti liturgici. L’happy end, con la riconciliazione di Jackie con il padre e il raggiungimento della fama e della popolarità, già evidenziavano la direttiva verso la quale il musical si sarebbe mosso anche in seguito, così come l’ambientazione (nel dietro le quinte di Broadway) avrebbe caratterizzato tutta la produzione successiva. Il lavoro, come tutti i primi lavori, non è chiaramente eccelso, e più che di musical si potrebbe parlare, a proposito di questo film, di melò: i pezzi musicali e cantati non si innestavano nel ritmo della trama, di cui costituivano solo momenti a parte, tesi più a mettere in luce le abilità dell’attore che ad intessere l’intreccio, ma l’intuizione era comunque all’avanguardia e l’idea di mescolare voce e suoni alle immagini e alle didascalie rivelava un certo desiderio di sperimentazione e la volontà di tracciare percorsi alternativi a quelli classici. Sta di fatto, in ogni caso, che la nascita del sonoro fu fatta coincidere con l’uscita di questo film, dove per la prima volta gli attori parlavano, cantavano e ballavano davanti alle macchine da presa e agli spettatori ammutoliti.

domenica 17 maggio 2009

MONEY o MEIN HERR?

Ho messo due pezzi bellissimi del grande CABARET con la spledida Liza Minnelli.

Domanda:
quali dei due pezzi messi qui sotto preferite?
MONEY o MEIN HERR???

MONEY

MEIN HERR

L'importante è vedere!!

Ammetto che non è cosa semplice ripercorrere la storia del Musical ma vediamo un pò cosa riusciamo a fare insieme... In ogni caso, come amanti del musical penso sia indispensabile vedere quanta più roba possibile!!

SINGING IN THE RAIN

Gene Kelly-Singing In The Rain

GLI ALBORI...

Già a partire dalle prime opere significative e prima ancora che potesse essere percepito come tale e quindi codificato, il musical si configurò come genere a se stante, con regole molto precise che lo contraddistinguevano da tutte le altre produzioni del momento: dal punto di vista tematico (e quindi per la sceneggiatura), per quanto riguarda la resa scenica (scenografie, movimenti di macchina, stile di recitazione, ambientazioni), per le sue specificità (equilibrio perfetto tra parti recitate, cantate e ballate per il raggiungimento di un’opera globale in cui tutto concorre a trasmettere allo spettatore un senso di unitarietà e uniformità). Sin da subito, quindi, il musical si affermò come genere e come genere tipicamente americano, accanto al western, di cui divenne una sorta di controcanto visivo: se, infatti, quest’ultimo si proponeva come epopea della storia statunitense tanto da essere paragonato, nella storia della cultura americana, alla nostra letteratura classica, quello, il musical, ne rappresentava la dimensione onirica e di svago, il rovescio della medaglia, ridanciano e gioioso, della medesima tradizione culturale.
Nonostante questo, spiegare cosa renda un film qualunque un musical e quali siano gli elementi ricorrenti che ne stabiliscono le coordinate e i confini, non è affatto semplice, poiché non basta che un film sia musicale perché possa essere considerato “musical”. Innanzitutto, e questo è chiaro, non si tratta né di un film-opera, né di un film-concerto, e neppure di una commedia con musiche e canzoni ad intervallare le varie fasi della messa in scena, anche se, ovviamente, gli ingredienti base, accanto al recitato, sono proprio la musica, la danza e il canto, insaporiti da fantasmagoriche (e l’aggettivo non è affatto eccessivo se si pensa a certe produzioni di
Busby Berkeley) evoluzioni coreografiche. Perché si possa parlare di “musical”, però, è necessario che queste diventino parte integrante col corpo del film, reagendo con esso sia sul piano narrativo che su quello psicologico, e non restino episodi separati, avulsi dal contesto. Questo per quanto riguarda l’aspetto prettamente tecnico e di peculiarità sceniche, ma in realtà c’è ancora dell’altro: la formula che ha fatto del musical il genere per eccellenza del cinema americano, non può essere ridotta esclusivamente alla perfetta integrazione delle performance musicali con il resto della messa in scena. Il segreto del musical è qualcosa che ha a che fare soprattutto con l’emozione che esso è in grado di suscitare nello spettatore, proiettandolo in una realtà che sembra perdere di vista per qualche istante la realtà dei fatti per immergersi in un mondo onirico e di favola. Si tratta, in pratica, di un viaggio negli spazi del sogno e, più in particolare, nel sogno di una nazione che stava diventando tale e ne prendeva coscienza con tutto il dolore e la sofferenza che questo comportava, una sorta di catarsi di massa in un universo di suoni e colori.

lunedì 11 maggio 2009

CATS

MUSICAL: COS'E'?

Il musical (dalla fusione di music e recital) è un genere di rappresentazione teatrale e cinematografica nato negli USA. Il suo corrispondente in Europa è la commedia musicale, con cui condivide l'uso di più tecniche espressive e comunicative insieme.
L'azione viene portata avanti sulla scena non solo dalla recitazione, ma anche dalla
musica, dal canto e dalla danza che fluiscono in modo spontaneo e naturale.
In questo genere ogni particolare risulta indispensabile per la riuscita dello spettacolo, dai costumi alla scenografia includendo regia, coreografie e luci senza dimenticare gli attori (o meglio, performers) che devono essere in grado di comunicare emozioni ricorrendo, spesso contemporaneamente, a discipline come la recitazione, la danza e il canto.

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Quello che vorrei fare qua dentro ha nello stesso tempo dell'affascinate e del rischioso... Ho pensato che, una delle forme d'arte e di comunicazione per eccellenza è il mondo del teatro ma sono voluta andare un pò più in là riflettendo sul mix dei diversi registri utilizzati nel meraviglioso mondo del MUSICAL. Sarebbe carino ricercare del materiale e scambiare delle opinioni su questa forma d'arte estremamente vasta, coinvolgente e a mio parere poco discussa.
Spero che l'argomento possa interessare molti di voi e che possiamo aprire insieme interessanti scambi di opinione. Ringrazio già da ora tutti coloro che si accosteranno al mio lavoro con interesse o anche semplice curiosità!