Gli anni in cui il cinema pronunciò i suoi primi vagiti coincisero con gli anni in cui il mondo assistette al primo grande tracollo finanziario della sua storia, sull’onda lunga della crisi dell’economia statunitense iniziata nel 1929. Erano gli anni dei licenziamenti di massa e degli scioperi nelle fabbriche, e quelli successivi, gli anni della “presidenza Roosevelt”, eletto nel 1932, e della politica del “new deal”. Per quanto riguarda la sfera cinematografica, la nascita del sonoro da un lato, e la grave situazione politica, economica e sociale dall’altro, comportarono, essenzialmente, due ordini di problemi: da una parte, vi era il bisogno di convertire i vecchi apparati secondo le esigenze della nuova tecnologia (e, quindi, rivoluzionando gli antichi principi che avevano sostenuto il cinema fino a quel momento); dall’altra, era necessario trovare un modo per portare il pubblico nelle sale, facendolo appassionare all’uno o all’altro genere, a quello o a questo attore. Erano anni di sperimentazione e dibattiti, di fallimenti e di grandi successi, erano gli anni in cui il muto usciva definitivamente di scena per non rientrarci mai più e portandosi dietro tutti quei divi (il caso di Rodolfo Valentino è il più eclatante) che non erano stati capaci di riciclarsi cercando un loro posto nel sonoro.In America, questa fase, coincise con l’affermarsi delle case di produzione, vere artefici, a dispetto del regista, dello sceneggiatore, degli attori…, della buona o cattiva riuscita di un’opera, dei trionfi o dei flop, e responsabili della rigida codificazione dei generi secondo schemi sempre uguali a se stessi, ripetitivi, rigidamente strutturati. I film venivano prodotti in grandi quantità, secondo meccanismi molto simili a quelli delle produzioni industriali, e ciascuno portava ben impresso il marchio di fabbrica che lo contraddistingueva dagli altri. Mentre la fantasia creatrice cedeva il passo alle ferree regole economiche del mondo dello spettacolo (si puntava più all’affinamento tecnico che sulle ricerche estetiche), si affermarono case di produzioni quali la MGM, la Warner Bros, la RKO, la 20th Century Fox, capaci di sfornare in un anno più film di quanto fosse anche solo possibile immaginare precedentemente. Il sonoro, che negli intellettuali aveva suscitato e continuava a suscitare qualche perplessità in quanto pareva privare il cinema della sua più autentica peculiarità: il silenzio, venne immediatamente adottato e presentato come incredibile prodigio della scienza, nel tentativo di assecondare i desideri del pubblico, ma anche di convertirlo alla nuova tecnica.
In questo contesto così sfaccettato, proiettato su un orizzonte di incertezze e paure, ma anche di nuovi fermenti e scoperte, nacque e si affermò il musical, sulle macerie degli ormai obsoleti spettacoli di varietà, del vaudeville, del burlesque, della farsa, della commedia; e nacque soprattutto come espressione di una poetica di evasione, rappresentazione del sogno americano, dell’entertainment puro. Secondo alcuni trasposizione in chiave bianca della cultura nera, si poneva come obbiettivo quello di trasportare il pubblico in un luogo incantato nel tentativo di dar vita a qualcosa che fosse in grado di suscitare stupore , sia attraverso la magniloquenza scenica (che spesso e volentieri sfociava nel kitsch), sia attraverso la creazione di personaggi connotati realisticamente, ma trasposti su un piano di pura invenzione. Per quanto riguarda le storie raccontate, esse seguivano schemi pressoché identici, ripetendosi con gli stessi meccanismi di trama e di intreccio da film a film, da autore ad autore: semplici e quasi adolescenziali, erano ambientate nello sfavillante mondo dello spettacolo, o meglio, nel “dietro le quinte” del mondo dello spettacolo. Una storia d’amore contrastata o d’impossibile coronamento veniva a interrompere lo scorrere lento delle giornate, accompagnata talvolta dalle difficoltà (economiche, ma non solo) di portare a termine lo spettacolo e metterlo in scena. Le peripezie dei personaggi si snodavano tra una canzone e una coreografia di danza fino all’happy end finale che calava il sipario su tutta la vicenda. Raramente, i registi (e dietro di loro le case di produzione) uscivano da questo tracciato e se lo facevano era, comunque, per ricaderci in qualche punto all’interno della narrazione. Ciò per cui il musical, invece, rivelava una certa forma espressiva e una sua propria peculiarità, erano le sperimentazioni tecniche: innanzitutto, è proprio grazie al musical che si cominciò ad utilizzare la macchina da presa come uno strumento dotato di grande mobilità, capace di cogliere il soggetto da mille punti di vista diversi, creando nuove prospettive e nuovi giochi di profondità. Si perfezionò, poi, la tecnica legata al sonoro la cui sperimentazione era resa ancora più difficile dal fatto che si aveva a che fare non solo con pezzi parlati, ma anche cantati e musicati, e che pertanto andavano riprodotti in modo ineccepibile. Si passò così dalla presa diretta alla registrazione in fase di montaggio, raggiungendo risultati incredibili per il tempo.
Il primo musical di un certo valore di cui si ha notizia fu Il cantante di jazz di Alan Crosland, apparso nel 1927 con il marchio distintivo della Warner Bros. La casa di produzione aveva lanciato, l’anno precedente, un film-opera, il Don Juan sempre con la regia di Alan Crosland, in cui per la prima volta nella storia del cinema veniva sperimentato il sonoro. L’operazione era stata fallimentare, e la famosa major era sull’orlo della bancarotta, quando il successo del Cantante di jazz le permise di risollevarsi una volta per tutte dal fallimento. La storia, in parte un’autobiografia dell’attore Al Jolson, è molto simile a tutte quelle che caratterizzeranno il musical degli anni successivi, con la differenza che in questo caso l’ostacolo verso una carriera di sicuro successo per Jackie, il protagonista, era costituito dal padre, un ebreo russo emigrato negli Stati Uniti e cantore in una sinagoga, che voleva fare del ragazzo il suo successore nei canti liturgici. L’happy end, con la riconciliazione di Jackie con il padre e il raggiungimento della fama e della popolarità, già evidenziavano la direttiva verso la quale il musical si sarebbe mosso anche in seguito, così come l’ambientazione (nel dietro le quinte di Broadway) avrebbe caratterizzato tutta la produzione successiva. Il lavoro, come tutti i primi lavori, non è chiaramente eccelso, e più che di musical si potrebbe parlare, a proposito di questo film, di melò: i pezzi musicali e cantati non si innestavano nel ritmo della trama, di cui costituivano solo momenti a parte, tesi più a mettere in luce le abilità dell’attore che ad intessere l’intreccio, ma l’intuizione era comunque all’avanguardia e l’idea di mescolare voce e suoni alle immagini e alle didascalie rivelava un certo desiderio di sperimentazione e la volontà di tracciare percorsi alternativi a quelli classici. Sta di fatto, in ogni caso, che la nascita del sonoro fu fatta coincidere con l’uscita di questo film, dove per la prima volta gli attori parlavano, cantavano e ballavano davanti alle macchine da presa e agli spettatori ammutoliti.
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