mercoledì 27 maggio 2009

I favolosi anni Cinquanta


Quando nel 1943 gli Stati Uniti entrarono in guerra, il musical aveva già espresso tutte le sue intrinseche potenzialità e si trovava in una fase di stallo se non proprio di crisi: molti dei personaggi che erano venuti alla ribalta a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta avevano da anni concluso la loro carriera, altri erano ormai sul viale del tramonto e comunque incapaci di apportare migliorie e venti rivoluzionai ad un genere che appariva ormai svuotato, incapace di esprimere di più di quanto già avesse fatto. Gli anni della guerra si contraddistinsero per il cinema americano come gli anni dell’impegno sociale e politico, ragion per cui, nel panorama delle grosse produzioni, non sembrava più esserci posto per i temi dell’evasione dalla realtà, del sogno a tutti i costi, delle fantasmagorie coreografiche, che avevano segnato i film del decennio precedente. Solo nel dopoguerra e durante gli anni bui, fitti di insicurezze sul futuro, poco rassicuranti per i singoli come per l’intera nazione, dei governi di Eisenhower e MacCarthy, il desiderio di fuggire dalla realtà, cercando nella fantasia, seppur cinematografica, una via di scampo, fecero risorgere, novella araba fenice, il musical dalle sue ceneri. Ma i tempi erano cambiati e l’età dell’oro di Berkeley e delle produzioni della Warner, della leggenda di Ginger Rogers e Fred Astaire, dei vari Al Jolson, Maurice Chevalier, Dick Powell…, gli anni del mito di Hollywood e dei suoi grandi produttori, erano finiti per sempre. Le nuove produzioni, per quanto si richiamassero agli antichi fasti, erano molto più vincolate alla realtà e raccontavano storie non del tutto estranee al contesto sociale ed economico del Paese, alla situazione politica nella quale versava. D’altra parte, dall’Europa, arrivavano le ventate di novità proposte dal cinema neorealista (soprattutto italiano) e Hollywood aveva dovuto fare i conti con il bigottismo moralista del maccartismo che aveva costretto molti autori e produttori ad emigrare altrove, cercando in esilio rifugio per le loro idee (il famoso “processo dei dieci di Hollywood” in seguito al quale, anche ad un personaggio del calibro di Charlie Chaplin, fu vietato di mettere piede negli Stati Uniti). Sulla scena si affacciavano nuovi volti, giovani di belle speranze, la cui esperienza aveva solo sfiorato quella dei grandi del musical classico, e furono proprio costoro a far rivivere, anche se solo per meno di un decennio, il sogno di quell’antico mito. Vincente Minelli, Arthur Freed, Stanley Donen e quello che era destinato a prendere il posto di Fred Astaire nel cuore degli spettatori, Gene Kelly, furono tutti impegnati, fino alla fine degli anni Cinquanta, nella produzione di spettacoli che ottennero spesso un enorme successo, diversi da quelli cui si rifacevano, per lo meno come tradizione, ma proprio per questo più consoni al momento storico e carichi di significazioni che quelli, negli anni, peraltro gloriosi, della loro vecchiaia, avevano perduto.

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