mercoledì 20 maggio 2009

Barkeley e il Sogno Americano

Il musical che si affermò alla fine degli Anni Venti, aveva già alle spalle la lunga tradizione di Broadway e degli spettacoli di cabaret, quelli che in Europa spopolavano soprattutto nella vitale e trasgressiva Parigi. Molti degli uomini che si apprestarono, quindi, a dedicarsi al nuovo genere cinematografico, venivano proprio da un’esperienza di questo tipo, maturata nelle file dei più importanti corpi di ballo teatrali, come registi o coreografi, se non addirittura come ballerini. Tra questi, Florenz Ziegfeld rivestì sicuramente un ruolo fondamentale per la futura storia del musical, producendo film del calibro di Glorifyng the American Girl del 1929, o Whoopee dell’anno successivo (morto nel 1932, fu omaggiato sia da Leonard che da Vincente Minelli in due film, rispettivamente del 1941 e del 1946: Ziegfeld Girls e Ziegfeld Follies); e più ancora Busby Berkeley, il coreografo che in meno di un decennio, dal 1930 al 1940, firmò, per la Warner Bros, quasi 40 film, inventando apposite tecniche di ripresa mai sperimentate prima e dando vita a spettacoli di una magnificenza grandiosa, in cui tutti gli elementi concorrevano a dare unitarietà e a conferire omogeneità all’insieme. I suoi musical si caratterizzarono sin da subito come i più rivoluzionari nella storia del genere e furono forse i primi ad esprimere quel senso di sogno e di realtà incantata che serpeggiava, come una linea rossa, in tutta la produzione musicale. A Barkeley si deve la liberazione del balletto dalle rigide costrizioni teatrali del palcoscenico, con movimenti di macchina che rendevano pirotecniche e caleidoscopiche le rappresentazioni, create e studiate appositamente per il cinema anche quando si rifacevano a numeri già presentati a Broadway. Nulla era lasciato al caso: le coreografie erano orchestrate sapientemente e permettevano di costruire una realtà altra, fantasmagorica, kitsch si potrebbe definire per certi versi, ma sicuramente perfetta nella sua resa scenica. Barkeley inventò uno stile, lo stile di Hollywood, che nessuno riuscì più ad emulare (e che egli stesso fu costretto ad abbandonare quando dalla Warner Bros passò alla MGM, negli anni in cui il musical esalava, ormai, i suoi ultimi rumorosi respiri). La macchina da presa, che fino alla sua comparsa sulle scene californiane, era stata utilizzata come una banale macchina fotografica che si limitava a riprendere le sequenze di canto e di ballo, si insinuò, con prepotenza sempre maggiore, all’interno della scena descritta, divenendo parte integrante dello spettacolo. Con riprese “a piombo” e overhead shot, cioè sopra le teste, divenne un personaggio fondamentale in tutte le scene musicali, accanto alle coriste e alle ballerine, e anzi, più delle coriste e delle ballerine, in quanto poteva mutare continuamente il punto di vista e la prospettiva delle cose, raccontando molto di più di quello che in realtà stava accadendo, andando oltre la scena, dentro e dietro di essa. Barkeley rappresentò il Sogno Americano, quello degli anni di Roosevelt e del New Deal, mostrando i guai del paese e dei singoli (Quarantaduesima Strada), ma anche il modo per venirne fuori, dando sfogo, così, al bisogno generalizzato di speranza, al desiderio di tutti di trovare una via d’uscita. Non si lasciò mai intimorire dalle storie amare e introdusse nel suo cinema i problemi sociali ed economici (la serie dei Gold Diggers), visti, però, attraverso la luce rosea dell’ottimismo e della gioia di vivere, cercando di combattere in questo modo il clima della grande depressione (celebre la scena, proprio in Gold Diggers of 1933, in cui le ballerine danzano in mezzo ai dollari cantando “We’re the money”). Quello inventato da Barkeley era un universo parallelo, animato da vita propria, con regole precise che, però, sfuggivano allo spettatore medio, intrappolato nel gioco delle evoluzioni e delle coreografie grandiose (sulla scena si muovevano interi “plotoni” di ballerine che, danzando, producevano figure sempre nuove, sempre diverse, inimmaginabile per i mezzi e per i set di allora), trasportandolo in un mondo immaginifico, dove il desiderio di stupire e di sbigottire erano gli ingredienti principali. Non si trattava, ad ogni modo, di uno stupore fine a se stesso, spettacolo per lo spettacolo, ma del bisogno di comunicare una visione ottimistica del suo tempo attraverso un linguaggio esclusivo e raffinato. Questo fece dei sui film, aldilà di tutte le critiche che gli si possono muovere oggi, dei gran film, autentici nel senso più profondo della parola poiché seppero celebrare il cinema e col cinema un paese, un’epoca, una generazione.

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